Achille Lauro: il coraggio di essere se stessi, il nuovo album Lauro
Achille Lauro album Lauro – Un nuovo anno, un altro album, l’ottavo per Achille Lauro, preceduto dai singoli “Solo Noi” e “Marilù”.
Lauro – titolo del disco – De Marinis, ha iniziato da rapper in seno a Roccia Music nel 2013, l’etichetta discografica indipendente che prende il nome dal mixtape del 2005 della Dogo Gang che ha segnato l’esordio del rapper Marracash, fondata da quest’ultimo insieme al dj e produttore Shablo, manager di Charlie Charles, Sfera Ebbasta e molte altre star della scena trap italiana.
Achille Lauro album Lauro: Official Video
Il suo primo album è stato “Achille Idol Immortale” del 2014, seguito da “Dio c’è” – con la propria etichetta discografica “No Face Agency”, “Ragazzi Madre” – che ha segnato il sodalizio artistico ora conclusosi – con il produttore Boss Doms.
Poi “Pour l’amour”, passando per le partecipazioni al Festival di Sanremo nel 2019 con il brano “Rolls Royce”, nel 2020 con “Me ne frego” fino a quest’anno con “Solo Noi”.
Fin da subito emerge la sua anima musicale multisfaccettata: si distacca dal rap tradizionale e dall’hip-hop, pur collaborando con i rapper più noti, e con quello che è stato il suo partner in crime per lungo tempo, sperimenta, abbracciando le sonorità più diverse, in un mix di influenze musicali di ogni genere, dalla trap fino al rock.
Un nuovo album il suo, frutto di un 2020 difficile, del voler “tirare fuori qualcosa di buono in questo disastro”, del suo essere “persona che scrive tanto” e “che quando ha qualcosa da dire la dice e quando l’ha da dare la da”, dopo essersi ritrovato con “centinaia di brani scritti, taccuini, fogli”.
Un album che arriva dopo i progetti side, entrambi di cover, di “1990” – sesto disco – e “1920” – settimo – del precedente “1969”, e che rappresenta veramente se stesso. Perché spontaneo, come tutte le cose che fa, dalle varie chiavi di lettura, che nascono da sensazioni e stati d’animo e sono fotografie di parti di lui, esprimendo le proprie milioni di personalità “come quelle di tutti”.
Achille Lauro album Lauro: la Cover
Una cover, quella del disco, che già da subito offre lo sguardo sull’intero album. Fortemente rappresentativa, e volutamente scelta minimalista, “al contrario di quello che chiunque forse si sarebbe aspettato da me in questo momento”, e che nel concept nasce come una tela. Un quadro – anzi cinque, una serie, ognuno con una lettera in più – che raffigura la celebre sagoma stilizzata dell’impiccato con le lettere del titolo del disco sotto.
Una cover che rappresenta la metafora della vita, e anche l’aspetto contraddittorio di essere un classico gioco per bambini che però, in fondo, rappresenta un impiccato. Un gioco dove “non può vincere l’impiccato, ed esserci tutto il nome completo, per questo c’è la o rossa”, e simboleggia una fine nel nome non completo. Una fine che può essere letta in tutte le chiavi: come la fine di un amore, di un percorso lavorativo, o anche quando qualcuno decide la fine di qualcosa nella propria vita mentre la lettera finale è invece la scelta di proseguire, “di dire no non è la fine, o dire baro e vado avanti”: un nuovo inizio e comunque il rifiuto di un termine imposto.
Ma non solo: le lettere del titolo del disco rappresentano dei generi musicali, tutti incarnati all’ultimo Sanremo dall’artista in tutte le sue esibizioni. Generi che hanno rappresentato qualcosa nella sua crescita artistica, che portano con sé dei concetti molto forti, che ha voluto evidenziare sul palco dell’Ariston, proprio per portare in scena non solo “un costume e una parrucca”, ma il pensiero dietro, le ispirazioni – da film, musica e libri, ma anche nel parlare con le persone, in quello che vede e sente, e che è stato in un’affermazione della propria identità, per un risultato ogni volta unico perché frutto di tante cose diverse e personalissime esperienze – “la voglia di portare qualcosa di più grande forse della musica”.
Perché ogni canzone, dice “ha un colore, è fatta di immagini che voglio portare a chi ascolta, e da qui nasce la mia voglia, la mia costruzione del vestito sulla canzone, che poi è l’immaginario, che poi è il costume, il video, la cover, che poi è tutto. Tutto quello che si guarda anche”.
Una condizione alla base di una volontà creativa che coinvolge una totalità, in un processo “sui cui perdo le notti, perché sono ossessionato, amo quello che faccio, e immaginare qualcosa – che sia musica o un progetto – che non esiste ancora e poi toccarla con mano”.
E alla manifestazione canora più importante d’Italia ha portato frammenti, gesti simbolici veri e propri – come la storia delle benedizioni – a cui tiene nel completamento del suo racconto, “perchè poi tra quello che uno pensa e quello che arriva fuori c’è sempre tanta strada, e forse quello è il difficile. Per cui a volte non si è compresi”.
Ogni suo progetto musicale, racconta, si può vedere sotto tanti aspetti. E sarebbe sbagliato vederne solo la performance, “la parrucca e il vestito”, che pur fanno parte del complesso: ma pur sempre punte di un iceberg che celano dietro un’ossessione al dettaglio, un grande studio e controllo maniacale. Racconta: “Vado a cambiare i respiri, quello che la gente che neanche sente, e prima di fare uscire qualcosa lo metto in discussione cento volte”.
Del fatto che sia legato alle periferie, non è un segreto. E’ evidente ma nemmeno sbandierato. Achille Lauro è cresciuto, spiega “in una comune di ragazzi dove c’erano artistoidi di tutti i tipi, disgraziati, delinquenti, scappati di casa, figli di nessuno, e tra questi artistoidi c’era sempre qualcuno che scriveva molto bene, che faceva musica molto bene”. Un contesto che lo ha influenzato grandemente nel suo auto esame minuzioso, “quindi prima di fare uscire qualcosa ero sempre abituato a chiedermi se fosse al livello, prima di scrivere mi chiedo cento volte se quella cosa sia perfetta, se la mia opera, il mio prodotto dell’artigiano – perché fare musica in parte è anche essere artigiani – vada bene”.
Una missione verso la perfezione che non persegue da solo. In prima persona certo, “io sui set sono quello che sposta insieme alle persone le cose, sposta le comparse, guarda il dettaglio”, ma anche con “persone che mi danno fiducia, un team selezionato negli anni in base a quanto amassero il proprio lavoro”. Il manager Angelo Calculli, il direttore creativo Nicolò Cerioni, il regista Leandro Manuel Emede – “una persona di grande cultura, con un grande gusto che è molto vicino al gusto che ho io, super preparata con cui mi sono trovato benissimo e ho continuato questo percorso oltre Sanremo, che ha dato al progetto un upgrade visivo grazie ad una grande preparazione e un occhio da esteta”, ma anche “tutte le persone che lavorano con me e lo fanno non solamente per scopo di lucro, ma soprattutto perché amano quello che fanno. A me non piace chiamare quello che facciamo arte, non voglio chiamare le cose che facciamo poesie, ma siamo veramente artigiani e quello che siamo l’abbiamo costruito dal primo giorno mattone su mattone, concependo il fallimento come possibilità e anzi il fallimento è il successo: tanti fallimenti fanno poi quello che siamo noi oggi”. Tutte persone belle a livello empatico, prima cosa importante per lui, e con le quali ama lo scambio reciproco.
“Nel progetto Achille Lauro non ci sono divisioni, si lavora tutti insieme, ognuno mette il proprio apporto, e ognuno da il proprio spunto. Io sono uno che ha le idee molto chiare, le porto sul tavolo ma poi mi piace sentire che cosa ne pensano gli altri, limarle. C’è sempre un percorso creativo in evoluzione, si parte da una cosa e si finisce migliorarla”. Con porte del tutto aperte: “Chiunque ha il diritto e il dovere di dire la propria, che sia anche una persona che magari ha un altro ruolo, è giusto valutarla e può diventare oggetto di discussione e di dibattito”.
Tutte persone con le quali lavora alacremente. Spiega: “Quelli che pensano che ci hanno buttato con un calcio sul palco di Sanremo e ci hanno messo un costume, non hanno capito nulla e dovrebbero passare quindici giorni con noi per capire che livello di dettaglio e di studio della cosa c’è, a partire da quando produciamo le canzoni, a quando scrivo i testi perché c’è una ricerca dell’autorato, anche nei pezzi più semplici c’è sempre la parola giusta, non è mai nulla a caso.”
Ma riconosce che il rischio di non venire capito sia figlio di questo tempo, dell’esigenza di velocità, dei social network, della velocità di scorrimento della bacheca: “E’ difficile fare capire alle persone i sottostrati di quello che c’è, perchè è veramente probabilmente la cosa più difficile oggi. Scarseggia poi l’attenzione che riservata agli articoli, non va più di moda leggere, c’è bisogno di avere sempre novità quindi magari non tutte le persone riescono a soffermarsi e approfondire”.
Ma con la speranza che ad uno sguardo meno superficiale, si capisca oltre la facciata. “Chi ha avuto il piacere o la possibilità di fare un passetto in più verso quello che siamo, magari oggi capisce veramente quello che c’è. Infatti sono stato contento del percorso a Sanremo perché ho avuto la possibilità da outsider come ero entrato, da squinternato e disgraziato come mi avevano etichettato, di farmi capire un po’ di più. Oggi magari un po’ più di persone hanno capito che qualcosa dietro c’è”.
E se mai si è incasellato in un solo genere, e anzi ne ha sempre esplorati parecchi, anche con “Lauro” ribadisce il suo desiderio di continuare ad esplorarli, tra rock, pop punk, e il titolo li reca con sè.
La “L”, è associata al glam rock. Un genere che ha ispirato il suo percorso, e rappresenta la scelta di essere, in un manifesto di libertà, che è stato ed è ancora. Spiega: “Di essere tutto e essere niente, di rappresentare qualcosa di teatrale quasi ma comunque mantenere un’anima, la solitudine coperta dal trucco e da un costume”.
La “A” è il rock’n’roll, rappresentato a Sanremo nella seconda serata e per quanto ha significato per la storia dell’umanità. “I generi hanno cambiato usi e costumi, sono stati stendardo di manifesti di cambiamento. Il rock’n’roll, la sensualità, il ballo a due, la voglia di cambiamento, la voglia di rinascita. Questa è un po’ la parte spensierata del disco”.
La “U” è popular music, uno di quelli che preferisce. “Perchè in Italia la musica pop è vista come una cosa di poco valore, frivola, che non ha nulla di artistico. A Sanremo dicevo “Dio benedica gli incompresi”: è la fine della musica pop in Italia, diversamente dal mondo, dove è molto importante. Molte canzoni anche del rock, colonne portanti della storia sono diventate pop, cioè popolari, musica del mondo”.
La “R”, il punk rock, è ovviamente icona della scorrettezza, dell’anticonformismo. “Il mio non essere mai soddisfatto, di cercare di fare sempre qualcosa di unico, di originale, di non seguire mai quello che funziona. La globalizzazione purtroppo ha fatto anche danni a livello globale: per quanto sia una cosa che ha mille lati positivi, però la musica ne ha risentito per quel che mi riguarda. Le classifiche estive sono tutte uguali, la musica popolare va scomparendo”. Un grande rimpianto.
Aggiunge: “Nonostante qualche artista che faccia a volte crossover tra musica popolare e attualità e sia sempre un grande successo, i ragazzi di oggi non guardano più cosa vogliono fare e cosa possono fare, ma quello che funziona e lo emulano. Dio benedica chi se ne frega, per me è molto importante il punk rock, con il suo messaggio di ribellione. Ho sempre fatto tutto il contrario di quello che si aspettavano da me nella mia carriera. Quando facevo musica urban ero comunque un outsider totale, quando ho fatto Rolls Royce e ho deciso di portarlo a Sanremo dicevano che non avrebbe mai funzionato e di non cambiare direzione rispetto a quello che facevo. Tutte le scelte della mia carriera sono state apparentemente senza senso. Sono fortunato perché nella mia carriera la fortuna è avere persone che mi danno fiducia, a partire dalla mia casa discografica, passando per Amadeus e Fiorello, che hanno dimostrato di avere tanta fiducia in me, e mi hanno dato una grande possibilità quest’anno a Sanremo”.
Per finire, la “O”. “E chiudiamo con il classic orchestra. Non vorrei sembrare quello che parla di ‘cosa c’è dopo’, non voglio sembrare di voler parlare del senso della vita in un’intervista al disco, perché a volte vorrei anche non entrare in argomenti, e anche io prenderla in modo frivolo. Però per me la musica è qualcosa di profondo in realtà, perché firma veramente le mie personalità. Alla gente può piacere o no, però è parte di me e non è solo un passatempo”. E perchè questo genere? “Perchè per me gli elementi d’orchestra sono persone che magari hanno studiato nelle loro stanze da soli, quindi hanno le loro vite, il loro percorso. Sono solisti ma insieme vanno a formare quella che è la grande opera, che è un po’ quello che poi forse accomuna tutti, nel mistero della vita”.
Achille Lauro album Lauro: i testi e le canzoni
E i testi e i temi delle canzoni? Molte frasi si trovano anche nel suo libro “16 marzo” uscito all’inizio dell’anno scorso, e sono riflessioni su tutto: su se stesso, su chi è, sull’amore visto in mille facce, di cinismo, l’amore corrisposto e non corrisposto, l’attrazione sessuale. Sguardi sul passato da persona malinconica quale è ma anche sul futuro come un grande sognatore, vivendo poco il presente, “probabilmente forse la cosa peggiore del mio carattere, che però è il motore di tutto, e che mi spinge a scrivere. Magari senza farlo per sei mesi, poi in tre giorni, nascono due album”.
12 tracce per altrettante facce di lui che hanno qualcosa da dire e a cui tiene molto, dove non vuole che tutti si rispecchino, ma che vengano prese per quelle che sono. E poco importa se il suo personaggio possa sovrastare la sua musica. Dice al riguardo: “Mi sono fatto questa domanda, io ho fatto tutta la carriera praticamente tentando di fare tutto l’esatto contrario di quello che avevo costruito, ma per una scelta personale, perché mi annoio. Non voglio rifare sempre le stesse cose, sono uno alla ricerca di qualcosa. Allora mi sono chiesto, quindi questo che vuol dire? Rimanere nella zona di comfort e non cambiare genere per paura che domani il successo possa non esserci più? Invece ho scelto di fare i dischi side, a Sanremo ho voluto fare uno show nello show, senza meramente fare promozione al mio album. Non mi interessa questo, io porto dei progetti artistici molto vicini a quello che io voglio portare. Dovrei cercare il successo eliminando quello che sono? Essere uguale a tutte le persone con il singolo estivo per forza, costruendo il pezzo d’amore obbligato anche quando non si sta amando o soffrendo per qualcosa?”. Concetto che rifiuta categoricamente: “Io sono questo e continuerò a fare questo”.
Il disco quindi, si divide in due macro aree: una più introspettiva che descrive la tempesta della sua anima e di chi come lui vive in uno stato di tormento perenne, dove indaga sul mistero effettivamente della vita e dell’essere umano, e l’altra che riprende il suo lato caratteriale da sognatore, più punk rock, grunge. Un sognatore che ci ha creduto fin dall’inizio, investendo tutto, prima senza case discografiche, senza l’appoggio economico di una famiglia, da figlio di gente onesta. Con una voglia di arrivare a quello che è oggi frutto del suo saper fallire e andare avanti e non guardare in faccia a nessuno.
Achille Lauro album Lauro: Generazione X
E per i brani, con “Generazione X” fotografa la sua generazione, da persona senza un percorso scolastico ordinario, ma curiosa, che ama conoscere, sapere, e imparare dagli altri. Riflettendo sulla sua similitudine alla fotografia della generazionale a cavallo tra il ‘65 e l’80, cioè “gente che non crede nella Chiesa, non crede più nel matrimonio, non crede in se stessi e in quelli prima. Forse il problema più grande della mia generazione è proprio questo, il non sapere chi vorranno essere. E’ una delle piaghe più grandi della mia generazione, vivono oggi e basta, e anzi lavorano e cercano i soldi. Ma non capiscono chi vogliono essere e lavorano per quello, di conseguenza appunto la generazione X di cui parlo è la nostra ed è molto vicino a quella di cui sto parlando, che non crede in Dio, vede Dio e lo mette in qualunque cosa che però non è la religione ordinaria”. Generazione che accetta le proprie dipendenze: c’è il parallelismo con la mela di Steve Jobs, che simboleggia la dipendenza dalla tecnologia. Spiega: “La accettiamo tutti quanti, ma sappiamo tutti che per quanti lati positivi abbia, ha anche tanti lati non buoni, magari ripercussioni che avrà in futuro”.
Achille Lauro sente di fare parte di una generazione che ha bisogno di qualcosa di più, in una continua ricerca. Le sue sfumature caratteriali di ricerca e tormento – che, momentanee, si attenuano nel momento creativo, “finiscono nel momento in cui finisce la canzone, che per me diventa già vecchia. Io non riascolto nulla di quello che faccio, tutti i dischi che ho fatto forse li ho ascoltati solamente fino al giorno in cui ho detto ok è pronta la canzone, bene non esiste più nulla, è una continua ricerca, che forse fa parte anche della mia generazione”.
Achille Lauro album Lauro: Latte +
A tale proposito, cita il brano “Latte +”, che analizza in modo positivo questo bisogno di avere sempre di più, per “una generazione della tecnologia dove tutto è già vecchio il giorno dopo, in una continua ossessione nel qualcosa di più”.
Con una spinta, tra passato e futuro ma dove non esiste presente, cioè “la cosa forse peggiore del mio carattere, ma forse anche motore per tutto quello che faccio. Vivo la vita cercando di costruire un qualcosa di immaginato, di conseguenza magari sono presente ma vivo cercando di costruire qualcosa. Magari è sbagliato, ma vivo ed è tutto in funzione di quello che voglio sia il mio futuro”.
Achille Lauro album Lauro: Femmina
In “Femmina”, dove esplora delle sfumature caratteriali, parla di una cosa pericolosamente comune: il maschio che si nasconde dietro alla virilità, immaginando un rapporto di coppia arrivato ad una situazione di stallo, “quando una persona dice faccio finta di niente”. Parla “dell’arte della disobbedienza del non fare niente, essere uomo ad ogni costo”, un lato forse pericolosamente comune, di cui si sta parlando in questo momento storico. E’ un po’ un pezzo di denuncia, con una donna vista un po’ come divinità. Una sfumatura caratteriale molto comune, soprattutto nella periferia estrema di Roma dove è cresciuto, “dove per un fatto proprio culturale le persone forse non sono istruite al rispetto della figura femminile, non sono preparati culturalmente, non hanno interessi”, scenario da cui si discosta: “Io sono un po’ allergico a quel mondo lì, ho avuto due fortune: capire presto chi volessi diventare, perché avevo capito subito che mi piaceva scrivere. Facevo le nottate a dodici anni prima di andare a vivere da solo in questa comune, dove anche mia madre mi trovava sveglio a scrivere”. Una fortuna per lui, crescere qui a contatto non solo con coetanei ma anche con persone più grandi, “anche 50enni che forse mi hanno insegnato quello che non volevo essere”, con la musica come spiraglio dove aggrapparsi e diventare quello che è oggi. Ma non rinnegando nulla di quello che è stato, di dove è cresciuto, perché è stata proprio Roma, “una città molto grande, dove a volte la gente vive un senso di abbandono, di malinconia”, ad ispirarlo e creare le condizioni per la sua voglia di esprimersi musicalmente.
Una città un po’ decadente ma anche molto poetica, che regala tanto, culla di ispirazione per molti artisti. Come, dice, “Rino Gaetano, Mannarino, Coez, tantissimi sono romani, senza togliere nulla alle altre città. Come anche Franco Califano, che ha messo le emozioni nei propri brani, ha lasciato qualcosa di emotivo. Devo ringraziare tutto quello che è stato, che ho passato, la periferia dove sono cresciuto, la mia città, perché non sarei chi sono oggi se non ci fosse quello, a volte mi ritrovo anche a dire che lo rifarei, non scambierei mai quello che c’è oggi con qualcos’altro”.
Un rispetto della figura femminile importante per lui, anche molto vicino a tematiche come i diritti umani, e ad aiutare le persone concretamente. Non solo per quanto riguarda la differenza di genere, ma sul tema diritti umani in generale.
Dice: “Penso che sia la base di oggi. Se dobbiamo immaginare un futuro, credo sia la base difenderli, difendere il diritto di scelta. Non solo quella di chi amare, che mi sembra una scelta abbastanza legittima, ma anche dare la possibilità ai giovani di capire, che la scelta è possibile, ed è doverosa per un cambiamento. Parlo della scelta di pensare in un modo diverso, dell’essere coraggiosi rispetto alla proposta musicale, di scegliere chi amare, pensare qualcosa che non esiste rispetto ad un futuro. Andiamo verso un futuro eco sostenibile, siamo sicuramente in un momento di transizione della storia dell’umanità. Imprigionare le persone dentro a dei recinti, vuol dire anche privarci noi della novità, di quello che potrebbe essere un futuro nuovo. Se non partiamo dai diritti umani, da dove vogliamo partire? Mi sembra anche assurdo parlarne oggi, che sia motivo di dibattito, che non sia una priorità. Siamo figli di cent’anni di stereotipi pericolosi, di un’Italia basata su pericolosi stereotipi, vuol dire che non abbiamo imparato niente dalla storia se questi sono i presupposti”.
Riflessioni che rivolge al suo pubblico, che ritiene più ampio oggi in termini di età, ma senza crociate sociali, in un’espressione naturale. Ma “non è che faccio una battaglia sociale, vivo prima di tutto una battaglia interna dentro me stesso, sono una persona abbastanza tormentata, con stati d’animo forti che poi forse riflettono qualcosa anche di più”. Come in “Femmina”: “Mi sono accorto che in quel momento ero imprigionato dietro ad un far finta di niente, che poi è molto di più. Fa parte del mio carattere e forse di quello di tanti. E forse una sfumatura di qualcosa di pericoloso: l’indifferenza, lo sminuire qualcosa o qualcuno”.
Un modo di esprimersi come artista che si traduce in getti creativi assolutamente spontanei. Spiega: “Non mi sento mai costretto a dire qualcosa, seguo solo quello che sono e cosa sento. A volte mi sfugge, magari ho altre cose per la testa e non riesco a scrivere, altre ho la fortuna di riuscirci”. Un instancabile nella ricerca continua di trasmettere: “Sono uno che si sveglia anche la notte o la mattina con delle cose in testa si sveglia e le appunta, di conseguenza è tutto molto spontaneo ma dopo la fase di getto in modo freddo analizzo la canzone e penso manchi il 50% per far capire alle persone poi cosa c’è dietro. Sia un passatempo ma anche altre chiavi di lettura grazie al riferimento a personaggi che hanno dimostrato con dei gesti di essere liberi, un manifesto di libertà. Chi va in fondo poi capirà che c’è qualcosa, per questo, soprattutto su un palcoscenico come quello di Sanremo, cerco sempre di portare qualcosa di più. Di cercare di spiegare bene, portando qualcosa di diverso, uno spettacolo nello spettacolo, che incarni dei generi. Senza inediti ma solo pezzi famosi, fregandomene un po’ della promozione, per costruire uno spettacolo, perché a me piace creare”.
Una libertà fortemente voluta, e non facile. “Essere libero grazie al successo non è scontato, è un lusso che mi concedo, perchè a volte può essere una gabbia. Si ha paura di perdere qualcosa, invece questo è proprio questo il lusso: essere libero grazie al successo”. Senza prediligere nessuna canzone in particolare. “Il fatto è che le canzoni che scrivo mi fanno tornare esattamente al momento in cui sono state scritte, ci sono delle canzoni che magari ho scritto stando sveglio per 36 ore. Ritrovandomi a mezzogiorno senza aver dormito, continuando a scrivere, magari con le serrande completamente basse, con degli spiragli di luce che entravano. Di conseguenza io le canzoni le vivo, le sento. Non ce n’è una a cui sono più legato delle altre, perché tutte fanno veramente parte di miei momenti molto personali. Molto intimi e soprattutto che ricordo, perché sono tutti legati alla mia vita”.
Un legame però, forte verso le emozioni che portano, parlando del suo futuro musicale, che forse, andrà in stand-by, per ora. Spiega: “Per questo ho detto che questo è il mio ultimo disco, per me vivere è profondamente legato a quello che faccio. Nonostante io abbia tantissime canzoni già scritte, forse 30-40 pezzi già molto a fuoco, quindi potrebbero essere già presi per una fase di finalizzazione e di discussione con gli altri ragazzi, adesso ho bisogno e voglio prima vivere, e poi ritornare su quello che faccio per dare me stesso veramente”.
E rifugge dai paragoni con altri artisti e polemiche varie. Dice: “Il paragone nella musica è sbagliato perché per quanto magari come con Renato Zero il costume ci accomuni, poi ognuno ha dato qualcosa ed è unico e originale. Ancora oggi Renato ha un’identità così forte. Si era parlato del fatto delle periferie, ed è sotto gli occhi di tutti quanto io sia vicino alle periferie. Perché ci sono cresciuto, in contesti complicati, e perché qui ci sono i miei amici e vivono ancora certe situazioni e guerre molto difficili. Di conseguenza io oggi non solo cerco di aiutare, e più che con la mia musica, nel concreto le persone, le associazioni e quant’altro. Sono molto vicino alle periferie ma non lo sto a sbandierare, faccio musica e le cose che facciamo nella nostra vita privata sul sociale sono contenti che rimangano là. L’importante poi, è fare e non tanto dirlo”.
credit image by Press Office – photo by Leandro Manuel Emede