Perfect Days: la bellezza della routine, l’intervista a Wim Wenders
“Perfect Days” di Wim Wenders è un film che coglie l’essenza della vita quotidiana con una delicatezza e una precisione quasi calligrafiche. Il protagonista, Hirayama, è l’emblema dell’uomo moderno immerso nella routine, ma che trova, nella semplicità e nella ripetizione, una forma di bellezza quasi zen.
Perfect Days: il trailer ufficiale
La storia si svolge a Tokyo, una metropoli che spesso appare come un labirinto di vite frenetiche. Tuttavia, Hirayama vive questa realtà con un ritmo differente. La sua giornata è un inno alla routine, un rituale che comprende il lavoro come addetto alle pulizie dei bagni pubblici, un compito che svolge con una dedizione quasi sacrale. La musica, i libri, le piante e la fotografia sono le stazioni di un percorso quotidiano che lo porta a scoprire la bellezza nelle piccole cose, a dedicare un sorriso a momenti che molti considererebbero insignificanti.
Il film di Wenders è un viaggio lirico e introspettivo nell’animo di Hirayama. Ogni attività, ogni gesto quotidiano, diventa una finestra sul suo mondo interiore. La routine non è più sinonimo di monotonia, ma si trasforma in un percorso di scoperta personale, una meditazione sul significato profondo delle cose.
Man mano che la storia si svolge, incontri inaspettati offrono sguardi sul passato di Hirayama, rivelando strati di un personaggio che sembrava immerso solo nel presente. Questi frammenti del passato si integrano armoniosamente nella narrazione, arricchendo il personaggio senza mai sovrastare la sua routine quotidiana.
L’intervista a Wim Wenders
Perfect Days segna il suo ritorno in Giappone dopo diversi decenni. Come è nato questo film?
“Il film è nato in maniera totalmente inaspettata, da una lettera ricevuta all’inizio dell’anno scorso: “Saresti interessato a girare una serie di cortometraggi a Tokyo, magari 4 o 5, di circa 15-20 minuti ciascuno? Questi film tratterebbero tutti di uno straordinario progetto sociale pubblico, coinvolgerebbero il lavoro di grandi architetti e ci assicureremo che tu stesso possa sviluppare le sceneggiature e ottenere il miglior cast possibile. Inoltre, ti garantiremo la totale libertà artistica.” Sembrava interessante, per usare un eufemismo. Già da anni desideravo tornare in Giappone e avevo dei veri e propri attacchi di nostalgia per Tokyo.
Dunque continuai a leggere: l’argomento avrebbe riguardato i bagni pubblici e la speranza era di trovare un personaggio attraverso il quale si potesse comprendere l’essenza della cultura giapponese dell’accoglienza, in cui i bagni giocano un ruolo completamente diverso rispetto alla nostra visione occidentale di semplici servizi igienico-sanitari. In Giappone sono piccoli santuari di pace e dignità.
Mi sono piaciute le foto che ho visto di quelle meraviglie architettoniche. Somigliavano più a dei templi che a dei gabinetti. Mi piaceva l’idea di “arte” legata ad essi. E sicuramente mi piaceva l’idea di vederli in un contesto romanzato. Ho sempre la sensazione che i “luoghi” siano protetti meglio nelle storie che in un contesto non romanzato. Ma non mi piaceva l’idea di una serie di cortometraggi. Quella non è la mia lingua.
Invece di girare 4 volte in 4 giorni, ho risposto, perché non girare un vero film in questi 17 giorni? Cosa ci fate con 4 cortometraggi? Immaginate, invece, avere un solo lungo lungometraggio! La risposta è stata: adoriamo la tua idea! Ma è fattibile? Ho risposto: “Sì! Se riduciamo la nostra storia ad una sola parte principale e usiamo meno luoghi. Ma prima dovrei venire a vedere di persona. Non posso immaginare una storia senza conoscerne i luoghi. E sono nel bel mezzo delle riprese. Posso darvi una settimana a maggio e poi potremmo girarlo a ottobre, durante il periodo di postproduzione dell’altro film”.
Alla fine sono volato a Tokyo a maggio, per 10 giorni. Ho potuto incontrare Koji Yakusho, un attore col quale sognavo di lavorare, che avevo sempre ammirato. Ho visto diversi posti, tutti a Shibuya, un quartiere che adoro. Quei bagni erano troppo belli per essere veri. Ma non era di loro che avrebbe parlato il film. Questo avrebbe potuto diventare un film solo se fossimo riusciti a dar vita a un addetto alle pulizie unico, un personaggio realmente credibile e reale. Solo la sua storia avrebbe avuto importanza, e solo se fosse valsa la pena guardare la sua vita, avrebbe potuto portare avanti il film, e quei luoghi, e tutte le idee ad essi legate, come ad esempio il forte senso del “bene comune” giapponese, il rispetto reciproco per “la città” e “gli altri”, che rendono la vita pubblica in Giappone così diversa dal nostro mondo.
Non avrei mai potuto scriverlo da solo. Ma ho potuto contare su Takuma Takasaki, un ottimo sparring partner e co-sceneggiatore. Abbiamo scavato in profondità per trovare il nostro uomo…”
Il film descrive in modo quasi poetico la bellezza del quotidiano attraverso la storia di un uomo che vive un’esistenza modesta ma molto felice a Tokyo.
“Sì, tutto questo è vero. Ma tutto è venuto fuori grazie a Hirayama. Ho immaginato un uomo con un passato privilegiato e ricco. Il quale, a un certo punto, aveva avuto un’illuminazione, quando la sua vita si trovava al punto più basso, mentre guardava il riflesso delle foglie creato dal sole che splendeva miracolosamente nell’inferno in cui si stava svegliando. La lingua giapponese ha un nome speciale per queste fuggevoli apparizioni che compaiono dal nulla: “komorebi”: la danza delle foglie nel vento, che cadono come un gioco d’ombra su un muro di fronte a te, creato dal sole, la fonte di luce là fuori nell’universo.
Questa apparizione aveva salvato Hirayama e lui aveva scelto di vivere un’altra vita, fatta di semplicità e modestia, diventando l’addetto alla pulizia dei bagni della nostra storia. Scrupoloso, soddisfatto delle poche cose che ha, tra cui la sua vecchia macchina fotografica (con la quale fotografa solo alberi e komorebi), i suoi libri tascabili e il suo vecchio registratore, con la collezione di cassette che ha conservato dalla sua giovinezza.
La sua scelta musicale ha ispirato anche il nostro titolo, quando Hirayama (già in sceneggiatura) un giorno ascolta “Perfect Day” di Lou Reed. La routine di Hirayama è diventata la spina dorsale della nostra sceneggiatura. La bellezza di un ritmo così regolare, fatto di giornate “tutte uguali”, è che inizi a vedere tutte le piccole cose che non sono mai le stesse ma che cambiano ogni volta. Il fatto è che se impari davvero a vivere interamente nel qui e nell’ora, non esiste più la routine, esiste solo una catena infinita di eventi unici, di incontri unici e di momenti unici.
Hirayama ci porta in questo regno di beatitudine e appagamento. E mentre il film vede il mondo attraverso i suoi occhi, vediamo anche tutte le persone che incontra con la stessa apertura e generosità: il suo pigro collega Takashi e la sua ragazza Aya, un senzatetto che vive in un parco dove Hirayama lavora ogni giorno, la nipote Niko, che cerca rifugio a casa dello zio, “mama”, la proprietaria di un modesto ristorantino dove Hirayama trascorre i suoi giorni liberi, il suo ex marito e tanti altri personaggi.”
Cosa la affascina del Giappone e della sua cultura, e nello specifico quali elementi della cultura giapponese sono prevalenti per lei in questo film?
“Il “servizio” ha una connotazione completamente diversa in Giappone, rispetto al nostro mondo. Alla fine delle riprese ho incontrato un famoso fotografo americano che non riusciva a credere che avessi realizzato un film su un uomo che pulisce i bagni. “Questa è la storia della mia vita!” Ha detto. “Quando da giovane venni in Giappone per imparare le arti marziali, il famoso insegnante da cui andai mi disse: “Se lavori nei bagni pubblici per sei mesi, pulendoli ogni giorno, allora potrai tornare a trovarmi”.
Ed è quello che feci. Mi alzavo ogni giorno alle 6 per pulire i bagni, in uno dei quartieri più poveri di Tokyo. L’insegnante mi seguì da lontano e dopo mi prese come suo allievo. Ma ancora oggi lo faccio una settimana all’anno. (L’uomo ha ormai sessant’anni e non è mai tornato in America.) Comunque, questo è solo un esempio. Ci sono altre storie di capi di grandi aziende che si sono guadagnati il rispetto dei loro dipendenti solo dopo essere arrivati al lavoro prima di loro e aver pulito i bagni comuni.
Questo non è un lavoro “inferiore”. Piuttosto è una forma di atteggiamento spirituale, un gesto di uguaglianza e modestia. E poi basta vivere brevemente in Giappone per comprendere l’importanza del “Bene Comune”. Una volta, durante un lungo soggiorno in Giappone, mentre stavo lavorando lì alle sequenze oniriche di Fino alla fine del mondo, ricevetti la visita di un amico americano che non era mai stato in Giappone prima. Era inverno e molte persone giravano con le mascherine (30 anni prima della pandemia.) “Perché sono tutti così spaventati di prendere un virus?” mi chiese il mio amico. Gli dissi: “Ti sbagli. Hanno già il raffreddore, indossano le mascherine per proteggere gli altri”. Mi guardò incredulo. “No, stai scherzando!” Non scherzavo affatto, questo è un comportamento molto comune in Giappone.”
Ha una lunga storia con Tokyo e il Giappone. La stessa Tokyo gioca un ruolo importante in Perfect Days, perché ha avuto la straordinaria possibilità di girare in luoghi dove solitamente non è consentito girare. Com’è stata l’esperienza di girare a Tokyo? E come è cambiata Tokyo dai tempi di Tokyo-Ga?
“Ho iniziato ad amare Tokyo alla fine degli anni Settanta, quando vagando per la prima volta nella città finivo spesso per perdermi. Fu un momento di pura meraviglia. Andavo in giro per ore, senza sapere dove mi trovassi, in questa enorme città, poi salivo su qualsiasi metropolitana e magicamente ritrovavo il mio hotel. Ogni giorno andavo in una zona diversa. Sono rimasto stupito dalla struttura apparentemente caotica della città, dove trovi vecchi isolati con antiche case di legno accanto a grattacieli e incroci trafficati, dove cammini sotto autostrade fantascientifiche a due o tre piani circondate da labirinti di stradine tranquillissime. Ero affascinato da tutto il futuro che vedevo prendere forma.
Allora avevo sempre visto gli Stati Uniti come il luogo dove trovare il futuro. Qui in Giappone ho trovato un’altra versione del futuro, che mi si adattava davvero bene. E poi, ovviamente, ho conosciuto il Giappone attraverso i film di Yasujiro Ozu (che è tuttora il mio maestro, anche se ho avuto modo di vedere il suo lavoro solo quando era già un giovane regista con diversi film all’attivo) che ci offre un resoconto del drastico cambiamento della cultura giapponese dagli anni Venti fino all’inizio degli anni Sessanta, quando lui morì. Tokyo-Ga l’ho realizzato nell’82, sulle sue tracce, cercando di capire come Tokyo fosse già cambiata dall’ultima volta che aveva girato lì, 20 anni prima.”
Lei è famoso per integrare la musica nei suoi film in un modo molto speciale, proprio come succede anche in Perfect Days.
“Mi sembrava sbagliato concepire uno “spartito” per questa semplice quotidianità. Ma poiché Hirayama ascolta soprattutto le sue cassette di musica anni ’60 e ‘80, il suo gusto musicale ci ha regalato una colonna sonora della sua vita: Velvet Underground, Otis Redding, Patti Smith, i Kinks, Lou Reed e molti altri, oltre alla musica giapponese di quel periodo.”
Ha dedicato il film a Ozu. Quali elementi del suo lavoro l’hanno maggiormente influenzata?
“Principalmente la sensazione che permea i suoi film è che ogni cosa e ogni persona sono uniche, che ogni momento accade una volta sola, che quelle di tutti i giorni sono le uniche storie eterne.”
Da vedere perché
“Perfect Days” è un’opera che riflette sul significato della bellezza e della ricerca personale in un mondo in continua evoluzione. Wenders, con la sua consueta maestria, crea un film che è al tempo stesso una poesia visiva e una riflessione filosofica, un omaggio alla bellezza delle piccole cose che costellano la nostra vita.
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